BELLA di Giovanni Carbone


Bella! Sono così bella che quasi non ci si crede.

Pensavo, già da qualche tempo, alla condizione umana, così meravigliosa in certi suoi anfratti imperscrutabili, e poi improvvisamente miserabile e decadente, resa sciocca dall'incapacità dei più di sapersi confrontare in modo sereno con quanto di bello lo circonda. È vero che la vita, quella a tempo, almeno, presenta talvolta delle strane complicazioni. Però, penso - e lasciate che il mio punto di vista di viaggiatrice del tempo, di testimone attenta dei secoli vi giunga credibile - che al "destino cinico e baro" si possano contrapporre le armi della serena contemplazione del bello assoluto, che forse è l'unica cosa che può dare agli uomini quella infinita speranza di vita cui troppo spesso rinunciano per lanciarsi altrove in improbabili quanto ingiustificate ricerche d'appagamento. Gli uomini, dinnanzi a questa verità inconfutabile, com'è nella loro complicata natura, preferiscono l'inutile pratica del divagare circa la soggettività del bello, con argomentazioni così lontane dalla realtà, così poco inclini all'uso della ragione da provocarsi soltanto, ahiloro, moti generali di autocommiserazione. Suppongo che dipenda tutto dall'insana voglia che hanno certi di scambiare i parametri logici di valutazione, e persino il buon senso comune, con un metro di giudizio che definirei, eufemisticamente - anche per non usare epiteti di ben altra efficacia semantica - troppo legato ai propri limiti. È la solita vecchia storia, se la volpe non arriva all'uva allora è l'uva che ormai, eccetera, eccetera. Come si fa a pensare della bellezza che questa possa essere tale per taluno e per tal'altro, invece, essere priva di quel significato d'estetica rilevanza capace d'appassionare ed innamorare tutti?

Ma d'altro canto, a loro parziale giustificazione, rimane il fatto che non tutti hanno avuto la magnifica sorte d'incontrarmi, anche per una certa mia ritrosia nel mostrarmi troppo in giro - sapete, sono così timida - e la loro vita dunque è così vuota, così priva di cose importanti. Si, perché io sono di una bellezza imbarazzante, direi, anzi, che sono io l'incarnazione della bellezza, e privarsene è davvero da sciocchi. Oh, è vero, ho tante altre virtù, ad esempio non sono per nulla egoista, e di tanto in tanto mi concedo, non a tutti, s'intende, ma a quei pochi eletti che sanno apprezzare. In un certo senso sono anche l'incarnazione della razionalità e se mi reputo bella è solo perché sono in grado di fare valutazioni oggettive. Ma di quante altre cose sono l'incarnazione! Qualcuno potrebbe dire che per contenere si tante virtù m'occorrerebbe ben più di una vita. Esatto, ed è per questo che ne ho avute tante, molte più di quante me ne possano attribuire le vostre credenze, e tendo a spenderle bene, dedicandole a scegliermi le giuste compagnie, attraverso secoli e storie. Mi piacciono gli uomini delicati, problematici al punto giusto, ma che sappiano essere sinceri quando si rivolgono a me, in tono confidenziale, svuotando i loro pesanti fardelli emotivi sulla mia bellezza anziché dinnanzi a stupide icone irreali, a costruzioni metafisiche o, come avviene oggi - e questo è anche peggio -, a false bellezze di plastica. Io, invece, sono così materiale, così di carne e sangue... carne, sangue e bellezza pura. Certo che faccio un bel po' di fatica a trovare sempre gli uomini giusti, e sopravvivere loro, giocando le mie infinite vite e le mie molte reincarnazioni, mi lascia sempre un grande vuoto. Per fortuna la loro immagine viaggia immutata nei secoli con me, giacché la mia memoria li rende immortali. È questo il mio dono a chi ha deciso di regalarmi la sua attenzione assoluta. Una cosa sola mi ha sempre lasciato perplessa ed è quel piccolo difetto che mi porto dietro da che ho messo piede per la prima volta su questo pianeta: gli uomini che ho incontrato hanno sempre vissuto come dei parafulmini, tirandosi addosso infinità di guai. Mah! Come quel tale Franklin - Beniamino, credo si chiamasse - che pensava che il modo migliore per evitare i fulmini fosse quello di tirarseli addosso perché se almeno un fulmine non ti colpisce durante la tua breve vita, allora vuol dire che lassù hanno scarsa attenzione per te. Indugerei ancora a lungo sulla mia bellezza ma non voglio sembrare troppo vanitosa. Voglio parlarvi invece di chi ha saputo apprezzarla.

Me ne ricordo uno che incontrai molti secoli addietro, in una delle mie vite passate, non ricordo bene quale. Che volete, me ne sono fatte tante! Comunque era l'epoca in cui gli uomini imbracciavano la zappa o la spada, a seconda delle circostanze. Lui, invece, aveva sempre vissuto sui libri e viveva in una piccola stamberga dove le sue dita, così raramente prive di rugose callosità, mi carezzavano dolcemente dinnanzi ad un camino acceso. Era davvero così carino, con quel filo di voce sempre leggermente rotto dalle angosce d'una vita non perfetta, con quei boccoletti biondi che gli emergevano discretamente dai contorni del volto allungato, da dietro piccole orecchie. Quando a sera faceva rientro a casa, mi accucciavo a lui per sentire il racconto delle sue noiose giornate. Questa è una cosa degli uomini che capisco poco: cosa li indurrà a lavorare sempre, quando tutto ciò che potrebbero desiderare è solo di poter godere della mia adamantina bellezza? Una di quelle sere, vi dicevo, tornò a casa, stravolto, ed inizio il suo penoso racconto, ben sapendo quanto io sia brava ad ascoltare senza interrompere.

"Credo che la colpa di tutto sia di mio padre. Poteva benissimo mandarmi ad imparare un lavoro di bottega, che ne so, dal fabbro, o da un fornaio, uno stalliere o quant'altro avrebbe dato un senso diverso e migliore alla mia vita".

Povero sciocco, così avresti incallito le tue dita e giammai io ti avrei concesso di carezzare la mia splendida e delicata figura. Ma non valeva la pena ricordargli questo particolare ancorché la sua essenzialità fosse del tutto palese. Talvolta le cose più scontate lo sono a tal punto da essere completamente ignorate da chi può goderne i quotidiani benefici.

"Ed invece mi mandò in un convento a studiare, libri su libri, perché divenissi quello che adesso non sono più, il precettore di una nobile famiglia. Che strazio. Oggi quell'odioso bambino ha vomitato tacchino, miele e mandorle sulle opere di Sant'Agostino. Il lavoro certosino di mesi, forse d'anni, di un amanuense benedettino consumato in un unico conato. Maledetto grasso ed ebete moccioso. Cosa avrei dovuto fare io? Non rispondi eh? Anche tu sei rimasta senza parole per tale ignobile massacro dell'educazione. Questi aristocratici sono davvero intollerabilmente maleducati e rozzi. E più sono ricchi più sono laidi. Poi magari, se cominci a prenderli per quello che sono, ad urlargli in faccia il sano disgusto per le loro grottesche perversioni, ti segnalano al primo sant'uffizio che passa di lì e finisci acceso in pubblica piazza dopo aver scritto confessioni eretiche a suon di tizzoni ardenti. Beh, io non ho retto, non ho detto nulla ma a quel piccolo rospo gli ho mollato un manrovescio. E quello che fa? Vomita le ultime giacenze intestinali. Apriti cielo! Un maiale al mattatoio avrebbe urlato sicuro di meno. Sono accorsi tutti. Servitù, famigli e familiari, persino lo stalliere del castello, il cuoco e tre lavandaie. Poi tutti hanno cominciato ad inveirmi contro, che Dio li fulmini. Dopo qualche minuto ed una decina di frustate ero per strada, fuori del castello, cacciato con ignominia come l'ultimo dei ladri. E adesso sono disoccupato. Non parli ancora eh? Non preoccuparti m'inventerò qualcosa ma non ti abbandonerò".

Poco dopo piombò in un sonno profondo, lì, accanto a me. Lo baciai teneramente e mi addormentai anch'io. Dormii sin quando non mi svegliò il rumore di lui che irrequieto misurava a passi nervosi la lunghezza e la vaghezza della stanza, disdegnando soltanto per ragioni squisitamente fisiche di verificarne le dimensioni in altezza. Poi mi guardò, con quegli occhi dolci da cerbiatto innamorato, come aveva sempre fatto. "Oh! Scusami… devo averti svegliato. Sono molto nervoso stamane. Sai, non riesco a togliermi dalla testa quello che è accaduto ieri. Uscirò a fare quattro passi nel bosco, così tu potrai continuare a dormire tranquilla. Non voglio coinvolgerti nei miei problemi. Ti prometto, in ogni caso, che ne uscirò presto. Troverò certo un altro impiego presso una famiglia magari di miglior rango e con più attenzione alla cultura di quanto non ne avessero quegli zotici". Così disse ed uscì. Gli volevo bene. Era difficile trovare un tocco delle mani così morbido e vellutato come il suo. Sembrava stravolto e temevo che avrebbe potuto mettersi in qualche guaio, così lo seguii, a giusta distanza, perché non mi vedesse. Era un tale imbranato, ma anche così dolce. Si diresse verso il bosco, di tanto in tanto passandosi le dita tra i capelli, scompigliandosi i boccoli. Ed io immaginavo quanto fosse estatico quel suo tocco gentile, quali sensazioni sublimi mi faceva provare quando con dolcezza infinita lasciava che le sue dita indugiassero sul mio collo. Lo sentii recitare sommessamente, a capo chino, uno di quei suoi componimenti, come amava fare durante la sera, seduto accanto a me, dinnanzi il camino acceso.


"Fu sì scritto in libro d'Amor etterno

che vo' foste mea Madonna ed invero

di vostra mercede eo servo sincero

per scaldare del meo foco l'inverno.
 
Leggiadre bocche levavansi 'ntorno

a gloriar d'anima vostra virtute

di vostre sembianze le qualitate

ch'anche il Ciel di notte si fa giorno". 



Fu allora che mi accorsi che ci eravamo spinti troppo oltre e avrei voluto richiamarlo, dirgli di tornare indietro. Non lo feci, temendo che avrebbe potuto aversene a male poiché l'avevo seguito, forse intimamente sperando che la sua voce ancora si sublimasse di poesie e d'odi. Ma avrei fatto meglio a palesarmi ed a ricondurlo a casa, giacché poco lontano si udirono d'improvviso urla disumane, scalpiccio di zoccoli e lamenti strazianti. Si avvicinò lì, da dove proveniva il rumore, ed altrettanto feci io, sempre rimanendo nascosta. Si acquattò dietro un cespuglio e, da posizioni differenti, senza essere scorti, potemmo assistere agli atroci accadimenti. Una torma di feroci banditi aveva attaccato una carovana d'artisti di strada, attori ed attrici, giocolieri e giullari, mangiatori di fuoco e menestrelli. Tutti perirono in un lago di sangue, ed i banditi si diedero al più feroce saccheggio dei miseri averi di quei poveri disgraziati. Quando tutto finì, fuggirono nel bosco. Rimasi ancora nascosta per timore che quelli tornassero. Lui, d'animo troppo buono, venne fuori del suo cespuglio per dar soccorso a chi poteva essere sopravvissuto a quell'orda selvaggia. Ancora si passò le mani tra i capelli ed io pensai: "Risparmia quel tocco gentile per me, te ne prego, 'che per questi poveracci ormai varrebbe meglio una preghiera". Ed invece cominciò ad aggirarsi tra quei corpi straziati: "Dio mio! Maledetti assassini. Per un pugno di monete hanno massacrato tutta questa povera gente". Fu allora che da oltre un fosso si udì una voce: "Messere, vi prego, tiratemi fuori di qui". Lui si voltò e si sporse per poi tirare su dal ciglio del fosso una figura esile e pallida. "Mi ero appartata un attimo per… per mie necessità e…". Si coprì il volto con le mani ed iniziò a singhiozzare rumorosamente. "Su, ve ne prego, pensiamo a metterci in salvo, prima che quegli assassini ritornino". Poi i due sguardi si incontrarono e i due ammutolirono, perdendosi l'uno negli occhi dell'altro. Brutto manigoldo, sei proprio come tutti gli altri uomini. Basta che ti si pari innanzi la gonnellina di un'attricetta di pubblica via e perdi la testa. Eh si, aveva proprio perso la testa, paralizzato e patetico, dimentico di ciò di cui poteva godere senza incorrere nei rischi dello starsene lì, allo scoperto, ossia della mia favolosa bellezza. Paralizzati ed inconsapevoli, quei due, incuranti del mondo d'intorno, l'uno perso nello sguardo dell'altro. Così inebetiti e così disattenti. Ma facevano tanta tenerezza che non ebbi cuore di richiamarli alla dura realtà che li attendeva. Quando l'orda tornò indietro, obliati da cupido non avvertirono in tempo il rumore degli zoccoli né le urla selvagge. Forse il sibilò delle spade, ma non certo il tonfo sordo e raccapricciante delle loro teste mozzate che rotolavano giù per il fosso. Eh si! Aveva proprio perso la testa. Ed era riuscito nell'impresa pressoché impossibile di perderla due volte in pochi secondi. Da questo punto di vista era davvero un soggetto straordinario. Io, dal canto mio, dovetti attendere molte vite prima di ritrovare un tocco morbido e vellutato come il suo. Ma, ahimè, io sono così romanticamente legata ad un certo tipo di uomini che il mio destino fece si che m'imbattessi in un altro precettore.

Anche lui, quando alla sera rientrava in casa, mi accarezzava dolcemente il collo con le sue dita vellutate, e non certo con quelle mani rugose che quel tempo infame sembrava offrire. Poi mi raccontava delle sue giornate.

"Mi hanno cacciato. Maledetti realisti. Ignoranti retrogradi. Barbari viziati. Non hanno compreso che l'unico modo per sopravvivere è quello di aggiornare il loro repertorio e che questa cura rigenerante deve cominciare proprio dai loro pargoli. Io non facevo altro che ciò che ritenevo più opportuno. Leggevo a quella lurida botticella che chiamano loro figlio, Rousseau e Voltaire. E loro mi hanno accusato di chissà quale tentativo di cospirazione. Poi dicono che uno diventa giacobino. Sono così ottusamente legati al loro inutile palazzo dorato da non rendersi conto del rumore assordante delle ghigliottine, del popolo che insorge contro i loro stramaledetti vizi. Presto però il terrore entrerà nelle loro stanze ed io sono quasi contento di poter assistere un giorno alla loro fine ingloriosa, perché quella, in realtà, è l'unica che meritano. Ah, ma io non sono così sciocco come pensano. Nel frastuono delle loro orge lasciano tutto in giro ed andando via ho trovato questo". Con gesto trionfale tirò fuori della tasca della giacca un grosso medaglione d'oro con un nobile simbolo. "Lo venderò e comprerò un passaggio in nave per il nuovo mondo. È lì che andremo, abbandonando la decadenza di questo luogo infame per ricostruirci una vita intensa, di stimoli nuovi, di nuove conquiste. Al di là dell'oceano il mio talento letterario sarà finalmente riconosciuto. Fonderò un giornale, una casa editrice, scriverò libri su libri, e potrò finalmente regalarti la più lussuosa delle vite".

Ed intonò un canto, uno di quei tanti, che amava comporre nascostamente, lasciando che fossi solo io a goderne.


"Libertà, il sogno cui l'uomo aspira

forgiando l'armi eterne della storia,

come levante il nuovo sol ammira

alla battaglia strappa onor e gloria".



"Lascia che vada adesso. Tornerò presto a prenderti e partiremo quanto prima". Chiuse la porta della soffitta e scese giù in strada. Lo seguii dalla finestra con lo sguardo, mentre trionfalmente mirava e rimirava appeso al collo il suo piccolo trofeo sottratto a pegno dell'angheria subita. Per strada c'era un gran frastuono. Un vociare continuo ed assordante di centinaia d'uomini e donne. Un manipolo di quelli lo vide e riconobbe il sigillo. "Un aristocratico". Urlò. Subito in molti gli furono addosso, lo sollevarono da terra senza dargli il tempo di spiegare, di denunciare il crudele equivoco. In breve lo trascinarono sul palco nel centro della piazza e le sue urla già si confondevano con quelle della folla acclamante giustizia. Due grossi uomini lo mantennero piegato con le braccia dietro la schiena ed il sibilo della lama che tagliava il vento scorrendo dentro le sue rotaie precedette di una frazione di secondo il tonfo della sua testa nella cesta. Poi un altro uomo sollevò la cesta e la mostrò alla folla sotto il palco che urlava la sua gioia. "Cittadini, un altro porco realista ha perso la testa. Alla Bastiglia ora".

Eh sì. Aveva proprio perso la testa ed io dovevo cercarmi un'altra casa. Era il mio destino, a quanto pare. Ma ero e sono così bella che quello non avrebbe rappresentato un problema. Certo, non posso dire che non mi dispiacesse, che non avrei a lungo rimpianto le sue carezze, il suo tocco morbido sul mio collo. Beh, me ne sarei fatta una ragione, anche se dovetti aspettare molto tempo prima di ritrovarne uno simile.

Comunque, l'ho trovato. Ne dubitavate forse…?

Stamattina è uscito ed ha fatto colazione con una tazza di caffè del giorno prima e tre sigarette. "Piccola, oggi sarà una giornata campale: quattro ore di lezione e poi, nel pomeriggio, collegio docenti. Nel frattempo domande angoscianti mi assalgono. Cosa si diranno le segretarie durante la pausa mensa? Bertinotti avrà il fazzoletto con le iniziali ricamate? A Berlusconi piaceranno i fagioli con le cotiche? Ma quello che non mi fa dormire è l'idea che non scoprirò mai di che colore è la carta igienica di Maria De Filippi". Povero piccolo è seriamente esasperato e così poco gratificato dal lavoro che fa. Comunque non è così rimbecillito da non notare la mia sorprendente bellezza, e mi passa ore ed ore accanto a leggermi libri. Oggi rimarrò a dormire aspettando il suo ritorno.

È proprio un bel tipo. Sembra che l'unica cosa che gli piaccia sia di stare in mia contemplazione. Buongustaio. Riceve poche visite e quando gli accade di avere ospiti, rimane lì, come un parafulmine, ad ascoltare. Finge interesse, annuisce spesso, si lascia scappare, in relazione a ciò che gli sembra di capire, un "hai ragione, è proprio uno schifo!", oppure un "noooh!?" di stupore apparentemente partecipato. Se lo beccano è finita. Oggi nessuno ha voglia di ascoltare nessuno, ma tutti hanno voglia di essere ascoltati e se c'è uno nuovo - e lui è nuovo di queste parti, appena trasferito -, per ringraziare dell'ospitalità che gli si concede, deve pagare pegno.

"Capisci, cosa ho dovuto subire. Lui ancora aveva quell'altra. Non aveva rotto con quella. E mi aveva detto che invece era tutto finito, che io ero la donna che amava e che quando sarebbe tornato dal viaggio in Francia saremmo stati sempre insieme. Come ci si può approfittare così? Tu pensi che sia normale? Mi sento… una merda, ecco, mi sento una merda, proprio una merda!"

Questa è una di quelle che lo becca più spesso e lo tratta come la folgore tratta il parafulmine, non se lo fa scappare. Venisse Giove Pluvio in persona ad impedirglielo. Questa volta lo aveva placcato proprio mentre stavamo per andare a mangiare alla trattoria qua vicino, avendo verificato il triste nulla che aleggiava nel frigorifero e nelle sue immediate vicinanze.

"Io mi sono bevuta un castello di cazzate da quello stronzo che la metà bastavano ed ora mi sento… mi sento…"

"Una merda?"

"Come?"

"Ti senti una merda".

"Ah… si! No scusa, sono troooppo agitata, non me lo meritavo di finire così".

"Ti dispiace se vado in bagno un attimo? Faccio in fretta". Non né aveva bisogno, fisiologicamente intendo. Aveva bisogno invece di starsene per qualche secondo in contemplazione della sua faccia allo specchio, aveva bisogno di qualche istante di silenzio. Per pensare a me, ovvio. Niente da fare. Lo segue sino alla porta del bagno e continua a parlare con tale partecipato trasporto che per un attimo ho temuto che volesse entrare con lui. Continua a parlare, senza soluzione di continuità. Il mio regno per due tappi d'ovatta, per qualche ora di sordità. Lo sciacquone, santo sciacquone che con il tuo suono melodioso e profondo sopprimi ogni altro rumore sino a farlo apparire distante ed indefinito. Attese un attimo, poi lo tirò, lasciando che il vorticoso scivolare per gravità dell'acqua provvedesse all'isolamento acustico del bagno. Allora provò un senso di sollievo e si guardò intorno: un pettine, dentifricio, sapone, dopobarba, deodorante, shampoo, asciugamani, carta igienica, un rossetto… Un rossetto? Chi l'avrà lasciato? Gli serve sempre del tempo per riflettere sui ritrovamenti inaspettati. Rubinetto. Ancora scroscio d'acqua, ancora la voce confusa che dietro la porta diventava un sottofondo lontano ed indefinito, un tappeto sonoro che incombeva su di lui, senza tregua, ma che così faceva meno paura. In contemplazione dell'oggetto si arrese all'evidenza che nella memoria non v'era traccia del complesso meccanismo che l'aveva condotto sin lì. Ma era un segno inequivocabile del destino, e sentiva già l'ispirazione delle muse pervadere ogni centimetro quadrato della sua corteccia cerebrale, ogni suo anfratto buio, ogni lobo, sino al talamo e persino all'ipotalamo, all'amigdala, su e giù, attraverso l'ippocampo. Secrezioni adrenaliniche investivano ogni muscolo del suo corpo perché si protendesse in avanti, verso la sua immagine riflessa allo specchio. Aprì di più il rubinetto del lavandino cosicché lo scroscio si avvicinasse ai decibel di una cataratta equatoriale, e il rossetto, quasi fosse animato da una forza sovrannaturale, cominciò a disegnare parole sulla superficie liscia del vetro, a ricoprire la sua immagine.


"Posso incontrarti nello sguardo di una bambola di pezza
e trovarvi il desiderio d'un altro cielo.
Posso ricostruire la magia del silenzio
nell'istante senza fiato
e farmi cogliere impreparato dal gioco d'azzardo.
Posso immaginare d'incontrarti di nuovo 
mentre scendi le scale
o cammini sulla riva della spiaggia
in fondo al paese diruto.
È il ricordo di te,
della costruzione del rifugio tra le dune
a due passi da quel posto
dove le tue mani plasmavano la sabbia.
Mi sorprende 
il risentire il suono delle onde 
e dei granelli di sabbia
urtarsi ritmicamente,
affollarsi discretamente
ed aggregarsi in forme rare,
il ricordo dell'attesa per la sinfonia conclusa
suonata sul bagnasciuga
e colorata su fondo rosso 
come una testuggine,
delle cave nel buio 
e  dei  falò rubati,
nelle notti senza fine
e della musica che hai imparato
dal sole riemerso al mattino
da un mare di magenta,
come l'orchestra dal golfo mistico".

Aprì la porta e ne venne fuori con un sorriso ebete. E lei lo investì di parole che non avrebbe mai decifrato e di cui l'ultimo dei suoi pensieri era di comprenderne il senso. Poi fu lei ad entrare in bagno e ne uscì qualche secondo dopo, perplessa. "Non che m'importi delle ragioni per cui ti piace imbrattare gli specchi di casa tua, quello che non sopporto è che tu lo faccia con il mio rossetto".

Eh sì, aveva proprio perso la testa per me. Che strani gli uomini. Chiamano evoluzione culturale qualcosa che - sostengono loro - procede parallelamente a quella biologica e finisce col condizionarla. Eppure, alla faccia dell'evoluzione, continuano a perdere la testa anche se in modo via via meno traumatico. Almeno è un atto evolutivo perderla per me, per la mia bellezza che non è mai stata umana, e del resto non potrebbe che essere così, visto che sono una gatta.


Per gentile concessione dell'autore Giovanni Carbone che gradirà ricevere i vostri commenti